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Inchiesta sull'arte
e la fotografia a Milano.

© Punto di Svista maggio 2013
    puntodisvista.net

Con Edward Rozzo lo sguardo sull’arte e la fotografia da Milano si allarga all’intero territorio italiano. Il Bel Paese, viene contestualizzato in una schietta disamina delle potenzialità e di ciò che invece è la realtà, vista attraverso gli occhi di un operatore arrivato anni fa dagli Stati Uniti, il quale ha finito per vivere molto più a lungo in questo paese che nel proprio. Nel corso dell’intervista, scopriremo la natura marcatamente individualista e egocentrica della cultura italiana, raccontata da un italiano particolare.

Entro subito in argomento chiedendoti come giudichi l’attività che si fa a Milano, attorno all’arte e alla fotografia? Pensi sia all’altezza di una città che ama definirsi europea?

Bisogna prima capire cosa si intende per livello europeo: quello di Londra, Parigi, Copenaghen o Praga? In ognuna di queste città, la fotografia gioca un ruolo diverso. Milano non ha una presenza nella fotografia. Personalmente trovo che l’Italia, in generale, abbia una cultura basata sulla parola. Non è un paese visivo. Ciò che dico può sembrare radicale e mi si potrebbe obiettare che questo paese ha prodotto il Rinascimento. Certamente l’energia manifestata attraverso quel momento storico, ha creato grande fermento, innovazione. Da allora però, per vari motivi, è diventato un paese sostanzialmente conservatore. La maggioranza delle forme visive viene giudicata secondo le parole che evocano. Raramente si entra nel merito del linguaggio visivo, quindi è chiaro che ciò non produce una cultura fotografica dirompente. L’Italia è famosa perché raffina quelle tradizioni che formano il gran buon gusto italiano. Questo crea la capacità di riconoscere lo stile nelle cose, ma non è un paese che ambisce a distaccarsi dal suo passato.
Per fare ciò occorre rischiare. Una ricerca sociologica, realizzata da un’importante azienda francese, ha rivelato quali sono le situazioni che creano più paura nelle popolazioni. Per l’Italia è risultato che la paura più grande è quella di fare brutta figura, questo atteggiamento non può portare innovazione. Fotograficamente è un paese fossilizzato sulla tradizione legata alla Seconda Guerra Mondiale, si è fermato lì.

In effetti, parlando di innovazione visiva, in quel periodo nel cinema si è prodotto il Neorealismo.

Certo, il Neorealismo è stata una innovazione perché, dopo la guerra, tutto era distrutto. Intellettuali politicamente sensibili, hanno dato vita a questo nuovo cinema. Certamente il Neorealismo o il Futurismo, sono stati grandi momenti di innovazione, come il Rinascimento. Ma è molto difficile mantenere questo livello, perché si creano seguaci, regole, e gli italiani adorano seguire le regole.
In fotografia, non si fanno mostre ardite, perché il pubblico non rischia di andare a vedere qualcosa che non capisce, e soprattutto che non riesce a tradurre in parole.

Quindi stai dicendo che il pubblico è impreparato a proposte innovative perché non le capirebbe? In altre parti d’Europa a tuo avviso si rischia di più?

Ci sono senz’altro paesi europei che rischiano di più, ma non si può puntare il dito e dire: questo paese è migliore di un altro, ognuno va contestualizzato. La questione è come ci si propone. Nel 1982 fui chiamato a creare un percorso didattico che allora chiamai “Brera Fotografia”. All’epoca pensavo che questo paese era fuori da quel che stava succedendo. Il mondo passava e l’Italia viveva nella sua autoreferenzialità, peraltro del tutto giustificata storicamente. Mi dissi che era un paese che andava educato. Non potevo proporre una cultura fotografica di qualità a persone che non erano preparate a riconoscerla. Questo voleva dire, dal mio punto di vista, che Brera avrebbe dovuto assumersi la responsabilità di diventare punto di riferimento educativo. Pochissime persone apprezzavano l’idea di questo progetto, la stragrande maggioranza dei miei colleghi si domandava cosa volesse fare quest’uomo con l’accento straniero. Questo atteggiamento è un classico degli italiani: si deve sapere chi sei, chi sta dietro di te, chi ti sostiene, chi è contro di te. Se l’indagine stabilisce che appartieni a una minoranza, non sei considerato.
In sintesi questa è stata la situazione in cui mi sono trovato, e, secondo me, non è cambiata molto. L’Italia non è mai stata un paese meritocratico, e quindi è difficile creare socialmente un’idea che possa permeare tutti i complessi livelli della società. Viceversa, può capitare, nell’arte, di assistere a fenomeni quasi dilettanteschi, individualistici, che vengono etichettati con nomi altisonanti quali “artista” o “maestro”: questa mentalità è medioevale. È davvero fenomenale che si usi ancora questo vocabolario totalmente anacronistico. Autodefinirsi “artista”, accettare che altri possano chiamarci “maestro” è totalmente fuori contesto. La cultura italiana soffre di questo non saper sentire, non saper tradurre in parole l’immagine, non possedere parametri di giudizio. Insegno da anni, e agli allievi quasi mai si chiede di sentire. Ancora meno gli si chiede cosa pensano. Viene chiesto loro che si risponda nella maniera “giusta”: non bisogna fare brutta figura, bisogna sapere come comportarsi, chi è importante e chi non lo è, chi è politicamente dentro o fuori e agire di conseguenza. In questo modo crescono solo con i propri gusti, e sanno dire solo “mi piace” o “non mi piace”. Da qui alla coscienza, c’è uno iato totale, e non esiste nessuno strumento che li aiuti ad appropriarsi di una cultura visiva per distinguere cosa è interessante e cosa no.

In effetti, parlando con alcuni operatori, si è reso evidente il bisogno di educare le persone prima di proporre qualcosa di nuovo, perché il pubblico non conosce nemmeno ciò che viene prima.

È vero ma è molto complicato. Sono stato direttore del dipartimento di fotografia all’Istituto Europeo di Design e ho fatto parecchi sforzi per cercare di condividere dei progetti con altre scuole, ma ho sempre trovato dei muri. Agli italiani non interessa sapere cosa fanno gli altri. Ogni volta che ho cercato di fare qualcosa, mi è stato risposto, testualmente che non c’era interesse. Ad esempio, all’inizio degli anni Novanta, proposi di invitare Martin Parr. La mia idea era quella di trovare un unico sponsor e fargli girare le maggiori città italiane per una settimana. Ma fu proprio lo stesso sponsor a dirmi che non ce l’avrei mai fatta. Era inutile che mi desse il suo appoggio. Non sarebbe successo perché non sarei mai riuscito a mettere d’accordo le varie scuole. Ed era vero.

Da una decina di anni a questa parte, pare esserci stato un incremento di interesse nei confronti della fotografia. Forse si è capito che è anche un ambito artistico, all’interno del quale esistono degli autori.

Personalmente trovo che parlare di “fotografia d’autore” sia aberrante. La fotografia ha una serie di aspetti espressivi particolari. Innanzitutto è molto più meccanica di altre forme d’arte, quindi non è direttamente paragonabile alle arti plastiche. Non possiede uno sviluppo stilistico graduale. La fotografia nasce già abbastanza completa, a causa del dispositivo che si utilizza. In realtà la puoi fare con o senza coscienza, a pagamento o per conto tuo. Distinguere quali di questi settori produca più arte, secondo me, è totalmente arbitrario. L’arte è un processo che viene giudicato da vari punti di vista: a seconda del contesto, di chi decide i significati, e quale significato è più importante di un altro. La fotografia d’autore è un’invenzione totalmente italiana. È un mercato, una professione. In realtà si decide, secondo il trend del momento avvalendosi di una suggestione che ci fa credere di esprimerci e ragionare, mentre stiamo adottando una serie di impostazioni culturalmente assodate, consolidate da altri, che stiamo copiando.

È opinione comune che l’istituzione pubblica debba farsi carico della parte culturale, ma questo non avviene, perché, di fatto, è sempre il privato che fa le proposte più innovative.

In effetti l’istituzione pubblica è assente perché burocraticamente farraginosa. Per creare un humus culturale propositivo ci vogliono tanti elementi. Primo fra tutti il rischio. L’Italia è troppo perbenista per fare una vera ricerca, tutti sono troppo cauti e vogliono apparire al meglio. Poi abbiamo molti fotografi di livello internazionale. Tendenzialmente, però, coloro che raggiungono questi livelli, sono spesso legati a radici molto tradizionali. Questo accade nel fotogiornalismo come nella fotografia di paesaggio. Sono rari i fotografi che vanno oltre, due esempi: Paolo Gioli e Mario Giacomelli, autori che non hanno seguaci. Questi fotografi sono rari e non hanno nulla a che fare con la cultura italiana, sono individui emersi perché hanno una loro poetica. In questo paese la fotografia non incide sulla società, sulla cultura, sul pensiero, per lo meno non come è avvenuto tra gli anni Sessanta e Ottanta. In quel periodo era una forza dirompente. Adesso accendiamo MTV, you tube, il nostro tablet, e ci sono miliardi di immagini a nostra disposizione. Con questo non voglio dire che la foto non dia qualcosa di particolare, è però ormai inserita in un contesto molto più complesso, che abbraccia diversi livelli, e se ci perdiamo dietro la “fine art”, ci mettiamo davanti, io credo, all’imperatore senza i vestiti. Fotografia d’autore significa solo provare a vendere le proprie opere attraverso una galleria, cercando di guadagnare fama con un gioco machiavellico di pubbliche relazioni.

Nel tuo percorso di insegnamento come hai trovato gli studenti rispetto a questi argomenti? Sono ricettivi, capiscono ciò di cui parli?

Trovo che gli allievi italiani abbiano d’istinto un abito mentale rigido. Il sistema in cui sono ingabbiati fin dalla nascita, possiede troppi filtri. Sono molto bravi a discutere di temi classici, ma quando ci si sposta sull’oggi e si chiede loro cosa ne pensano, restano muti. D’altra parte mi chiedo: come si fa a formare le persone se sui giornali vediamo un uniforme e imbarazzante qualunquismo? Nella mia esperienza mi è capitato di lavorare con galleristi che mi hanno detto: ‘non posso far vedere questa immagine perché gli italiani non la capirebbero’, quindi si può anche confezionare un prodotto evoluto, ma a chi lo si propone se i giornali non lo sanno usare e la gente non lo può vedere? Non ci interessa indagare gli spazi negativi o positivi, commentare la società. Credo molto nell’educazione perché permette di trasmettere gli strumenti che servono a capire. Ma anche questo non è facile a causa delle diverse ideologie. Oggi, dopo anni di battaglie, mi chiedo cosa sia stato fatto per la fotografia in Italia: è particolarmente importante a livello mondiale? No. Lo è in Italia? No. La gente guarda la fotografia per capire se stessa, per capire il mondo? No. Chi guarda la fotografia? Un piccolo esiguo gruppo di persone a cui interessa. Ripeto: credo molto nel fornire gli strumenti adatti a comprendere l’arte ma occorre porsi su un piano paritetico, senza prevaricare, fornendo al pubblico i parametri che gli permettono di diventare padrone della materia con cui ha a che fare.

La fiera MIA, quest’anno alla sua terza edizione, è stata da alcuni classificata come poco culturale. Altri, invece, l’hanno definita troppo culturale. Nelle intenzioni del suo ideatore,  è stata pensata per quelle realtà che non hanno la possibilità di mostrarsi. Cosa ne pensi?

Le fiere sono sempre utili. Sono il cuore dello scambio. Poi è vero che se non possiedi una chiglia di cultura abbastanza robusta sei sottoposto a un bombardamento, e fai fatica a discernere tra cose più o meno interessanti. Quando si va a una fiera di questo genere, non si è preparati a vedere così tanto perché non è un tipo di fotografia che ci mostrano tutti i giorni, quindi la trovo una iniziativa molto positiva. Se sia cultura o commercio dipende da come la si osserva. Secondo me è promiscua in entrambi i casi, ci sono i famosi “autori” e ci sono proposte più di massa. Penso sia una iniziativa rispettabile, soprattutto in un paese che, con tutti i suoi filtri, non mostrerebbe il novanta per cento di quello che si vede lì.

Alcuni affermano che il pubblico debba essere formato. Sembra si debba far conoscere la storia della fotografia prima di proporre altro. Il punto però è che il pubblico che frequenta questo ambiente è sempre lo stesso.

Perché in Italia non c’è un uso sociale della fotografia. Quello che si vede sui giornali, alla televisione, sulle riviste è robaccia. L’editore spesso non sa nulla di fotografia. Personalmente mi è capitato di lavorare per una importante azienda automobilistica italiana, nella quale il mio referente era una persona competente. Ma quando poi il lavoro realizzato è stato sottoposte alla dirigenza, le immagini sono state completamente cestinate perché semplicemente non rispondevano ai canoni tradizionali della visione. Probabilmente, essendo così autoreferenziali, non siamo aperti, di conseguenza non sappiamo cosa siamo effettivamente. E non lo riconosciamo quando ce lo fanno notare. In pratica accade una sorta di scissione tra ciò che siamo e ciò che crediamo di essere, è questo che vedo nei miei allievi. Loro pensano di essere in un certo modo, in realtà sono persone normali con difficoltà normali, come in tutto il mondo.

Questo aspetto del non confronto è un elemento importante. Il fotografo non si confronta mai con un suo pari, non confronta il proprio lavoro con quello di un altro. Che ne pensi?

Ognuno porta in giro questo senso di sé, molto forte, molto autoreferenziale che cerca di non scalfire. La fotografia invece, ha che fare con il mondo, le persone, i sentimenti, il pensiero. È un linguaggio che esprime quello che ha da dire la gente di questa società. Se a me interessa che tu abbia i capelli lunghi o corti è un fatto sociale: si tratta di come io vedo te e tu vedi me. Se uso la parte visiva per indagare questo quesito diventa interessante, se invece voglio metterti in un contesto tecnicistico, che ho visto fare cinquant’anni fa da un “maestro”, e riproduco le tonalità di Weston perché hai una faccia che potrebbe essere simile a quella di Tina Modotti, è un lavoro simpatico ma non posso pensare di fare qualcosa che vada al di là del puro e semplice soddisfare me stesso.

Per ricondurre un po’ il discorso a questa città, c’è qualcosa sulla fotografia che salveresti?

Sarebbe come attribuire a Milano una qualche importanza fotografica. Io non credo che ce l’abbia. Ho conosciuto tantissimi fotografi italiani nella mia vita, tutti bravissimi, che non si sono sviluppati più di tanto perché non c’è un terreno in grado di utilizzare il loro talento. Davanti a me ho l’equivalente dei problemi che vedevo quarant’anni fa. L’Italia potrebbe avere mille modi per eccellere ma è troppo ideologica. Insegno molto volentieri cultura visiva, penso però che la fotografia, così come la intendono la maggioranza degli operatori nelle strutture italiane, non credo abbia molto a che fare con la gente o con la vita. Viviamo in un paese che è stato veramente tenuto nell’ignoranza visiva, a causa della sua impostazione così verbale, concettualmente legata alle appartenenze. Si fa molta fatica a incoraggiare i ragazzi ad aprire gli occhi. Sono chiusi, da tutte le parti.

 

© Mario Giacomelli

Dama con l'ermellino, Leonardo da Vinci, 1488

© Martin Parr

Intervista a Edward Rozzo di Giovanna Gammarota

© 2012 Edward Rozzo

© Paolo Gioli

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